Emozionarsi davanti alle Ninfee di Monet

Entrare nella sala delle Ninfee al Musée de l’Orangerie è come infilarsi dentro una tavolozza. La luce non arriva dall’alto o dalle finestre, ma sembra nascere direttamente dai colori stessi. Blu che diventano viola, verdi che si sciolgono in riflessi dorati, bianco latte che respira come nebbia.

Mi sono seduta al centro. Davanti a me, Monet aveva già fatto tutto ciò che un illustratore sogna: catturare l’attimo in cui la realtà smette di essere oggetto e diventa sensazione. Le sue pennellate non descrivono, evocano. Non raccontano un giardino, ma la memoria di un giardino.

Guardando le Nymphéas ho pensato a quanto il colore possa essere un’emozione, non solo un pigmento. Monet non dipingeva l’acqua, ma la vibrazione che l’acqua lascia negli occhi. È come se avesse scoperto un linguaggio segreto, quello della luce che si dissolve, del tempo che si sospende.

Forse è questo che mi ha commossa: quella capacità di lasciare che il colore faccia il lavoro del cuore. Come illustratrice, passo ore a cercare il tono giusto, il tratto che respira, la sfumatura che parla. Davanti alle Ninfee, ho capito che a volte basta lasciar andare la mano, fidarsi del gesto, del flusso.

Uscendo, ho sentito il desiderio di tornare a dipingere. Non per imitare Monet, ma per ricordare quella sensazione di luce liquida che mi aveva attraversata. Parigi mi sembrava più morbida, come se il mondo intero fosse appena stato immerso in acquerello.

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